A cura di Emilio Siciliano, Matteo Cuva, Valentina Rossi
«[…] Povera patria
Schiacciata dagli abusi del potere
Di gente infame, che non sa cos’è il pudore
Si credono potenti e gli va bene quello che fanno
E tutto gli appartiene
Tra i governanti
Quanti perfetti e inutili buffoni
Questo paese devastato dal dolore
Ma non vi danno un po’ di dispiacere
Quei corpi in terra senza più calore?[…]
Nel fango affonda lo stivale dei maiali
Me ne vergogno un poco e mi fa male […]»
Povera Patria, Franco Battiato
23 Maggio 1992, 16.45. Un Jet Falcon decolla dall’Aeroporto di Ciampino con a bordo Giovanni Falcone e sua moglie, Francesca Morvillo con destinazione l’aeroporto di Punta Raisi, Palermo. Quando atterrano sono le 17.45 e ad attenderli ci sono tre auto blindate. Per quei tempi, la scorta era nutritissima. Giovanni Falcone, quel giorno, vuole guidare e si fa passare le chiavi della Fiat Croma Bianca dal suo autista, Giuseppe Costanza. Francesca siede accanto a lui e partono, insieme, verso l’inferno che sarebbe divampato davanti ai loro occhi 12 minuti dopo.
17.57. Giovanni Brusca dalle colline sopra lo svincolo di Capaci aziona un telecomando. Una nuvola di fuoco comincia a gridare e investe la prima auto del corteo. Muoiono sul colpo Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Il diavolo, intanto, ha innalzato un muro di cemento e detriti su cui si schianta l’auto del magistrato Falcone. Giovanni e Francesca non indossavano le cinture di sicurezza e vengono sbalzati violentemente contro il parabrezza. La terza auto resiste e si salvano gli agenti all’interno. La gente accorre, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo sono ancora vivi, riescono ad estrarre Francesca ma per Giovanni serve l’intervento dei Vigili del fuoco.
Nelle radio delle auto della polizia di tutta Palermo risuonano parole di morte, «Monza 500 è stato colpito». La situazione è gravissima, il giudice e sua moglie vengono trasportati d’urgenza all’ospedale di Palermo con l’elisoccorso.
Paolo Borsellino apprende la notizia da un amico e si precipita in ospedale, senza scorta, annebbiato solo dal dolore che è venuto a fargli visita. Giovanni Falcone morirà alle 19.05, tra le braccia di Paolo che in quel momento perdeva un collega e il suo migliore amico. Francesca, invece, muore qualche ora dopo, alle 22, a causa di una grave emorragia interna. Cosa Nostra si era portata via una speranza e l’amore nel giro di poche ore.
Di quel volo sapevano in pochi, ma soprattutto sapevano due attori imprescindibili di quegli anni: lo Stato e la Mafia.
Due giorni dopo, ai funerali partecipa una città in lacrime, partecipa quello Stato che aveva lasciato morire Giovanni da solo, partecipano tutti. Rimangono scolpite nella memoria le parole di Rosaria, giovanissima, che aveva perso suo marito Vito. «Io vi perdono, ma vi dovete mettere in ginocchio».
Da Milano Ilda Boccassini risuona come un tuono rivolgendosi ai suoi colleghi magistrati: «Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali»
Giovanni Falcone, e con lui Paolo Borsellino, hanno operato una rivoluzione nella lotta a Cosa Nostra. Assieme a loro dobbiamo ricordare tutte le vittime di quella “montagna di merda” che è la Mafia: tutti gli uomini dello Stato, quello che lottava, che hanno abbandonato questo mondo per costruire un’Italia migliore. Il nostro ricordo oggi va a loro.
Abbiamo voluto ripercorrere l’Italia della guerra contro la mafia, una guerra combattuta non da eroi ma da uomini e donne come tutti noi. Per farlo ci siamo avvalsi delle straordinarie testimonianze di Felice Lima, all’epoca sostituto procuratore della Repubblica a Catania e oggi sostituto procuratore presso la Corte d’Appello di Messina, e Antonio Ingroia, sostituto procuratore della Repubblica a Marsala e poi a Palermo sempre con Paolo Borsellino, poi protagonista del pool antimafia che diede il via al Processo Trattativa Stato-Mafia. Tramite le parole ci siamo immersi nell’Italia di 29 anni fa, cercando di trarne un insegnamento per la nostra azione odierna.
Felice Lima
E. Siciliano: Buongiorno procuratore Lima. Vorremmo iniziare dalla sua Storia, la sua battaglia contro la mafia.
F. Lima: Fatico a rispondere a questa domanda: secondo me non ha aiutato questo paese l’idea che l’impegno civile dovesse passare attraverso singoli eroi. Nei paesi dove si vive meglio questo risultato è stato ottenuto perché c’è più senso civico. Fatico a personalizzare perché secondo me questo alimenta l’idea di tutti che ci debba essere un salvatore, che nei fatti non c’è perché un paese non vive di salvatori esterni ma del quotidiano della sua comunità.
Fatta questa premessa, comunque racconterò la mia storia. Sono entrato in magistratura nell’ 86 a 25 anni, sono stato giudice penale dall’‘87 all’88 a Siracusa, poi sono diventato giudice istruttore penale (detto vecchio rito) e poi nel ‘90 sono venuto a Catania per fare il sostituto procuratore della Repubblica: a quel tempo chi di noi – e non eravamo tutti purtroppo – faceva il suo lavoro in maniera onesta e tecnicamente decente si imbatteva inevitabilmente nel malaffare, nella criminalità, nella corruzione, nell’estorsione, nell’associazione mafiosa.
In quel tempo in Sicilia c’era una vera e propria guerra – soprattutto fisica – che mieteva tantissimi morti, la maggior parte, dal punto di vista numerico, tra i criminali. Le cosche mafiose si contendevano il potere a colpi di pistola.
E’ un errore non considerare questo aspetto: la morte di chiunque è una tragedia. Avremmo dovuto piangere quei morti e avremmo dovuto non sembrare indifferenti, sia per pietà umana sia perché se c’è qualcuno che è disposto ad uccidere qualcun altro per le strade della città significa che questo qualcuno ha molto potere e molta impunità. E oltre alla morte di costoro morivano con molta facilità – sostanzialmente nella disattenzione generale – anche uomini dello Stato, persone per bene, imprenditori, operai, carabinieri poliziotti.
Per avere un’idea: alla compagnia carabinieri di Monreale hanno ucciso il capitano Basile e il capitano Da Leo, che sono stati assassinati uno dopo l’altro senza che il mondo insorgesse. Giovani militari bravissimi, eroici, uno dei due con la bambina in braccio. E poi così tantissimi. Una lunga fila di bravissime persone assassinate perché facevano il loro dovere. Fino poi alla strage di Capaci che costituì un punto culmine. Per altro la strage di Capaci non era bastata, nemmeno quella di Via Pipitone Federico dove era stato assassinato il giudice istruttore dott. Chinnici. Ci volle anche la strage di Via d’Amelio per smuovere e fare qualcosa di decisivo che un po’ ha cambiato le cose. Adesso non si uccide più tanto – si uccide ancora, ma pochissimo. Questo purtroppo non significa che la guerra sia finita, ma solo che è cambiata.
S: Alcune volte si pensa che la mafia sia stata sconfitta dopo l’accelerazione che c’è stata dopo il ‘92 … purtroppo sappiamo che non è così. Cosa fa di diverso lo Stato dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio? Forse il segnale lo dà la società quando al funerale degli agenti della scorta di borsellino lincia le istituzioni dello Stato.
L: La società non è apparenza formale, è sostanza; il crimine segue le stesse logiche: ogni fenomeno criminale è fisiologicamente collegato ad una struttura sociale. Siamo portati a illuderci che il crimine sia qualcosa di malato, la mela marcia che viene da fuori e finisce nel cesto delle mele buone. In realtà non è così: la mela marcia è figlia delle mele buone. I mafiosi non vengono da fuori, vengono da dentro e sono dentro. Molti uomini bramano due cose: potere e denaro. E si possono conquistare in diversi modi: in modi onesti e disonesti.
La prova che è una menzogna il dire che abbiamo sconfitto la mafia dopo via d’Amelio sta nel fatto che ancora, a distanza di 29 anni, la vicenda sia avvolta nel più assoluto mistero. Ancora si mente: il processo per la strage di via d’Amelio è uno dei più importanti dell’ultimo mezzo secolo perché la magistratura avrebbe dovuto dare il meglio di sé, in quanto riguardava l’uccisione di uno dei suoi uomini migliori e perché riguardava un fatto politicamente, socialmente e moralmente rilevantissimo. Invece la magistratura dà una pessima immagine di sé, dando vita ad un processo falso con indagini depistate, condannando persone sicuramente non colpevoli. Ancora oggi, una fetta cospicua della società attacca il cosiddetto processo trattativa, una grossa fetta della società non crede che nelle stragi ci siano stati coinvolgimenti di pezzi dello Stato, una fetta cospicua della società non sa niente di quello che è successo perché ci è stato tenuto nascosto.
Quindi, è vero che dopo la strage di via d’Amelio c’è stato qualcosa in più. Ma non sono stati dei cambiamenti così radicali come avrebbero dovuto essere. Non dobbiamo stupirci: la storia va avanti a piccoli passi. Più che aspettarmi una pangenesi, mi aspetterei e spererei in un cambiamento culturale della società, che vada verso una diversa acquisizione di valori nuovi, che adesso non abbiamo. Attualmente, ancora lasciamo ai loro posti persone legate alla criminalità, politici corrotti, amministratori corrotti, magistrati corrotti, che non fanno il loro dovere, e ciò significa che non abbiamo del tutto capito quali sono state le dinamiche che hanno portato a quei fenomeni. Sarebbe ingenuo pensare che adesso non c’è il crimine, è solo vestito in un altro modo e opera in un altro modo.
S: Faccio un passo indietro temporale, e questa è una domanda personale: quando il 23 maggio vede un collega morire in quella prova di forza, che cosa ha provato? Lei e le persone intorno a lei che si impegnavano e facevano il proprio lavoro combattendo quel fenomeno?
L: Tantissima amarezza e tantissimo sconforto. Ho il ricordo nettissimo di quel giorno: il 23 maggio eravamo andati con mia moglie a vedere una casa che poi è la casa che tanti anni dopo abbiamo comprato e nella quale abitiamo e mi ricordo il momento in cui ebbi la notizia. Tuttavia, per noi, non era la prima volta: mentre forse alcuni cittadini hanno, come dire, provato qualcosa di più forte questa volta, devo dire che io avevo già provato le stesse sensazioni: era già stato ucciso Rosario Livatino, Salvatore Saetta con suo figlio, era stato ucciso Giangiacomo Ciaccio Montalto un grandissimo magistrato, era già saltato in aria la strada di Pizzolungo con Carlo Palermo, era già saltato in aria Via Pipitone Federico con il consigliere Rocco Chinnici, era già stato ucciso Carlo Alberto dalla chiesa con la giovane moglie, era stato ucciso Boris Giuliano, era stato ucciso Ninni Cassarà, era stato ucciso Peppe Montana. La morte di Falcone chiaramente fu un colpo particolarmente duro, perché Giovanni aveva nelle nostre menti una sorta di speranza di inattaccabilità, con una scorta che per quei tempi era nutritissima e procedure di sicurezza importanti.
Un gruppo di noi era abituato a percepirsi come candidato a questi eventi, io a quel tempo avevo una scorta molto nutrita: in due occasioni furono scoperti dei progetti per attentare alla mia vita. In un caso fu fatto evadere un ergastolano mentre due carabinieri lo dovevano scortare dal carcere di Palermo al carcere di Trani. E io mi percepivo, come in tanti, esposto a questo pericolo.
Nonostante questo avevamo la netta percezione che fosse un problema tutto nostro, che in realtà a tutti gli altri importasse tutto sommato poco. È vero che quando morì Borsellino nella cattedrale la gente gridò e aggredì le autorità, però è anche vero che a Palermo quando Giovanni era vivo non c’era tutta questa solidarietà. Poi certo, dopo la strage, tutti piansero i loro morti, ma il dramma è che noi abbiamo una notevole tendenza a piangere dopo, a versare lacrime di coccodrillo: se rosario Livatino non fosse stato lasciato da solo, non sarebbe stato assassinato. Tutte le volte che un magistrato è stato assassinato è perché era diverso dai suoi colleghi: è molto doloroso dire queste cose ma è la verità. Se Rocco Chinnici fosse stato come tutti gli altri non sarebbe stato assassinato. Quando morì vennero trovate delle pagine in cui raccontava di quando il procuratore generale e il presidente del tribunale andavano a dirgli che la doveva smettere, che doveva seppellire Giovanni Falcone sotto una montagna di carte, che dovevano smettere di mettere in ginocchio l’economia della regione. Rocco Chinnici era da solo, e da solo venne assassinato.
Queste persone sono morte da sole. E’ facile ora piangere. Tanti come me, adesso non vanno alle commemorazioni di Falcone per non incontrare quelli che furono complici dell’atmosfera, del contesto che ha generato le stragi. Questo è quello che pensavo io a quel tempo.
S: Anche lei ha rischiato di morire. Falcone diceva “l’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, ma saper convivere con essa”. Lei come affrontava durante il suo lavoro la paura? E soprattutto da questo punto lei sarebbe stato pronto a sacrificarsi? Sarebbe stato un segno di attivismo civico e di miglioramento della società, morire per un ideale di giustizia? Tutti i martiri che abbiamo citato, hanno continuato la loro battaglia fino alla fine per cercare di restituire un paese migliore?
L: La racconto in un altro modo. Quanto alla questione delle persone accanto a me, io all’epoca avevo mia moglie, ancora non avevo figli. Avevo mia moglie che è anche una mia collega: ho un ricordo chiarissimo di una riunione che facemmo io e lei nel soggiorno di casa nostra dicendoci: «cosa facciamo? i rischi sono questi, andiamo avanti o no?» e abbiamo deciso concordemente di andare avanti.
Quanto ai motivi per cui andavamo avanti, io ti dico io miei (ma secondo me sono anche quelli degli altri). Premetto questo: avevo scritto una lettera ai miei genitori in cui gli dicevo che se l’avessero letta, significava che io ero morto e che ne era valsa la pena. Ero, quindi, sia consapevole che sereno riguardo questa cosa.
La dinamica che ci portava ad andare avanti non era (diversamente da quello che pensano le persone) una sorta di eroismo audace, ma era un confronto con noi stessi. Provo a raccontarlo con Borsellino (chiaramente rischio, io Paolo lo conoscevo, era anche amico di mio padre però chiaramente quello che sto per dire è una mia opinione). Tutti dicono che Borsellino sapeva che dopo la morte di Falcone era condannato ed è andato avanti lo stesso. La gente lo immagina come un eroe che pensa “Se morirò sarà valsa la pena”. Io non penso che Paolo pensasse questo, io penso che come me pensasse: “non voglio morire e cercherò di non morire, fermo restando che, certo, rischio di morire. Perché vado avanti pur sapendo che rischio di morire? Perché non andare avanti, diciamo, sarebbe peggio di andare avanti”.
I primi ai quali facciamo le cose che facciamo, siamo noi stessi. Alcuni di noi, giunti al bivio fra continuare ad onorare se stessi, fare quello in cui credono e smettere di farlo pensano che staranno meglio se continueranno a farlo, lo pensano perché ritengono che smettendo staranno malissimo, passeranno poi la vita a pentirsi e a rimpiangere di non averci provato. E quindi andavamo avanti nella consapevolezza di poter morire ma nella convinzione che quello per cui lavoravamo era così importante da non poterlo tradire, da non poter rinunciare.
Chiaramente ognuno si faceva i suoi trucchi mentali: ad esempio io e mia moglie dicevamo «questa inchiesta e poi basta»: questo riduceva l’orizzonte temporale. Percepivamo che non era una vita che potevamo fare per 20 anni, vuoi perché probabilmente saremmo stati uccisi, vuoi perché non era vita, era malatissima. Difatti, poi, anche se per motivi diversi, ho cambiato ufficio.
Le mie dinamiche interiori erano queste. Percepisci che sei da solo e a quel punto sei tu che fai la differenza e se non la fai tu, non ci sarà nessun’altro che lo farà al tuo posto. In quel tempo, credevamo di servire una causa, pensavamo veramente che una fetta cospicua del Paese volesse cambiare, quindi pensavamo di fare una cosa giusta e condivisa. Anche se con il senno di poi non ne sono sicurissimo.
S: Questo mi porta più a una provocazione: molti altri hanno visto e vedono tuttora la magistratura o singoli magistrati, come una speranza perché sono coloro i quali portano avanti una battaglia che la società non riesce a combattere. Funzionalmente parlando non dovrebbe essere la politica a occupare quegli spazi? Questo fa riflettere su quanto lo stato abbia abbandonato gli uomini che hanno servito quella causa in quell’epoca.
Lei sostiene e difende molto l’indipendenza della magistratura: c’è stato un periodo tra il 92 e il 94, dove i giudici hanno influenzato la vita dell’Italia, oggi si è perso il senso della funzione sociale della magistratura nella società?
L: Credere che ci sia qualcuno che ci salverà, i magistrati, i politici, è la malattia. L’Italia non è vittima. Vedete, il dramma degli italiani è che sono degli eterni immaturi, gli italiani sono brutta gente, che non ha coscienza delle proprie opportunità. A scuola ci dicono che siamo stati vittime del fascismo, ma la verità è che l’Italia è stata fascista, non vittima del fascismo. E così con tanti altri fenomeni politico-sociali che si sono succeduti.
I fatti di questi ultimi anni, dimostrano che la magistratura è profondissimamente malata, e dimostrano anche che lo sa e che non vuole minimamente guarire.
I tribunali sono come gli ospedali. La gente si ammala eccezionalmente, normalmente è sana. Qualora non fosse così, il sistema ospedaliero collasserebbe. Lo stesso dovrebbe essere il palazzo di giustizia, la gente si comporta bene e eccezionalmente qualcuno sbaglia. E come l’ospedale se è la società a essere corrotta, la magistratura è impotente.
Il primo fautore della legalità sono i cittadini. Noi non siamo cittadini, bensì elettori-consumatori: vogliamo qualcuno che ci prometta il mondo, senza che loro fare nessuna fatica. Ma così non ne usciamo.
S: C’è un ricorso sempre alla semplificazione. La magistratura suppliva alla politica poiché essa era incapace di dare una prospettiva alle persone in cui potersi riconoscere e andare avanti.
Ci chiediamo con rabbia perché la società non riesca a voltare le spalle alla criminalità: se la società cambiasse, il crimine non avrebbe più una base su cui poggiare.
L: La magistratura ha occupato degli spazi, però era fatale che succedesse quello che è successo. La magistratura ha avuto un ruolo di promozione valoriale: i giudici hanno elaborato valori culturali, etici dando un contributo positivo.
La gente vuole semplificazione e questo è il dramma di questo tempo: il sistema della comunicazione di massa è un sistema truccato e falso che banalizza, inganna i cittadini spingendoli a polarizzarsi. Non si riesce a discutere di niente, tutto deve essere twittato, stare in 20 righe.
Che differenza c’è tra un cittadino ed elettore consumatore? Il cittadino costruisce attivamente la società, l’elettore consumatore è passivo. Il sistema delle comunicazioni è pervasivo e superficiale, e così la gente ha perso dimestichezza con gli strumenti della conoscenza: l’impoverimento culturale è collettivo. Noi usciremo dal guado il giorno in cui noi cittadini metteremo in atto una rivoluzione culturale dal basso che chiaramente comporta un lunghissimo processo. E’ importante sapere che il mondo cambia quando cambiamo noi.
Mi avete chiesto delle notizie autobiografiche, dal mio punto di vista la mia partita l’ho vinta, perché l’ho giocata: il mio obiettivo speravo che fosse di cambiare più che vincere. Eppure alla fine ho vinto perché comunque io ho fatto la mia parte. Uno dei problemi di questo tempo è che la gente per impegnarsi vuole garanzie di successo, questa cosa non funziona: alcune cose si fanno solo se si è sicuri di vincere ma alcune si fanno perché è giusto farle e la vittoria è averle fatte.
M. Cuva: Spostando il focus della discussione sui giovani: secondo lei cosa dovremmo imparare noi da quello che è successo 29 anni fa? Rispetto agli anni della sua gioventù vede più attivismo, più voglia di lottare, più determinazione nello sconfiggere la mafia o almeno mettersi in gioco?
L: Quando sono un po’ giù, mio fratello mi propone questo argomento: secondo lui l’idea che noi stiamo vivendo tempi peggiori rispetto ad altri tempi è un’idea sciocca. Le questioni sono sempre state e sono le stesse, chiaramente cambiano i contesti. E’ chiaro che a me giovane nato nel ‘60 venivano chieste cose che a voi non vengono chieste e viceversa, io avevo delle opportunità, voi altre.
Adesso per farvi sentire, aprite un blog e non avete limiti, io invece per fare le mie battaglie politiche stampavo e distribuivo volantini. È vero che questo è un tempo con tantissime difficoltà ma anche con tantissime opportunità. Ai giovani di oggi sono chieste cose nuove ma sono anche date delle opportunità nuove.
Il mio consiglio a voi giovani è: ragazzi non ve la passate peggio dei vostri coetanei di un tempo, chiaramente le sfide che avete voi sono nuove e diverse, quindi in certe cose siete svantaggiati rispetto ai miei tempi, però per altri versi avete molti più strumenti. Io pensavo a un lavoro, voi potete pensare a 100 lavori.
Non aspettate, non pensate che la vita vi verrà a cercare, siete voi che dovete uscire a cercarvela. E non pensate quello che pensano tutti, non bisogna pensare di trovare qualcosa di definitivo, risolutivo, grandioso o niente. Questa generazione pensa sempre a cosa c’è dopo, non è possibile che si aspetti sempre qualcosa di grandioso.
Ragazzi siate concreti, costruitevi una felicità concreta. Non si può vivere sempre in attesa di qualcos’altro, si deve vivere oggi. Non ha senso vivere arrabbiati con rimpianto e sfiducia, queste sono malattie dell’anima. I giovani non devono aspettare, i giovani sono quelli al potere. La narrazione collettiva è che i giovani sono in ostaggio dei vecchi, cosa che è vera solo se i giovani si rassegnano a questa posizione. Voi avete tutte le chance, bisogna solo metterle in gioco.
La cosa più triste sono i giovani che ti dicono che non ne vale la pena.
Antonio Ingroia
E. Siciliano: Avvocato, 29 Anni dalla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lei è stato sostituto procuratore prima a Marsala, poi a Palermo sempre con Paolo Borsellino, ha vissuto quella guerra in prima linea, ci aiuta a ripercorrere il 1992 e perché si arriva a un epilogo così devastante come quello del 23 Maggio e del 19 Luglio?
A. Ingroia: Falcone era consapevole che c’era un percorso che era partito da lontano e che voleva arrivare ancora più lontano. Tutto nasce con l’istituzione del pool antimafia storico nell’Ufficio Istruzione che aveva costituito Rocco Chinnici con Falcone, Borsellino e altri magistrati. Il dottor Chinnici inserì un nuovo metodo di investigazione – innanzitutto ispirato al metodo collegiale – e aveva poi anche un metodo diverso di indagare. In quel modo il nemico – la mafia – sapeva che non poteva risolvere il problema uccidendo il singolo giudice, ma avrebbe dovuto uccidere tutti. Uccidendo un magistrato perdi la memoria dell’indagine svolta da lui, in una situazione collegiale quella memoria non si perde. Era una distribuzione del rischio ma anche una circolazione dell’informazione e del sapere.
Falcone era ovviamente un profondo conoscitore della mafia, ma aveva anche un grande rispetto di essa, nel senso che non la sottovalutava e aveva piena consapevolezza di quanto fosse organizzata. Per questo diceva: la mafia ha un metodo e per combattere la mafia anche l’antimafia deve avere un metodo.
Nasce lì l’idea di indagare sulla mafia come organizzazione: ecco perché sin dall’inizio Chinnici contava molto sul ruolo strategico che aveva la nuova tipologia di reato – associazione di tipo mafioso – che non esisteva prima del pool. Tuttavia, questa fattispecie di reato entra in vigore soltanto nell’82 a prezzo di tante morti.
Infatti, nell’Aprile di quell’anno fu ucciso l’onorevole Pio La Torre, politico che aveva portato in parlamento quello che diventerà poi il 416 bis. Ci vuole però l’omicidio, nel settembre del 1982, dell’alto commissario antimafia Carlo Alberto Dalla Chiesa perché il parlamento decida finalmente di introdurre la legge. Così si formano così gli strumenti che aveva chiesto il pool.
Io feci la mia tesi di laurea sperimentale sul 416 bis – che venne premiata con un premio di laurea intestata a Pio La Torre.
Ma la mafia non si ferma. Nell’agosto dell’83 venne ucciso Rocco Chinnici con un’autobomba, appena uscito di casa, mentre stava raggiungendo il palazzo di giustizia. É la prima volta nella storia della lotta alla mafia che viene usata un’autobomba per uccidere un obiettivo, e non i soliti attacchi armati. Con Chinnici c’è stata una strategia quasi di tipo terroristico, e infatti sono rimaste molte ombre sull’esecutore: probabilmente non c’era solo la mano della mafia.
A Chinnici subentrò Nino Caponnetto. E si arrivò così all’84, anno della svolta: la magistratura prese più coraggio, indagando in modo frontale e organizzato la mafia, studiando l’associazione con un metodo nuovo, voluto soprattutto da Falcone.
Iniziarono a crearsi delle crepe nel sistema mafioso, che portarono ai primi fenomeni di pentitismo: i collaboratori di giustizia. Il primo nel 1984 è Tommaso Buscetta, che collabora con Falcone.
Noi oggi conosciamo Cosa Nostra, ma all’epoca lo Stato parlava ancora di mafia siciliana o mafia calabrese. Tommaso Buscetta racconta per la prima volta l’organizzazione di Cosa Nostra: i capi decina, i soldati, gli uomini d’onore, i vari capi famiglia che costituiscono la commissione, le commissioni provinciali e infine una cupola dove stanno tutti i capi provincia. Al di sopra di tutto il capo dei capi, della famiglia dei Corleonesi, già all’epoca Totò Riina
Successivamente nacque l’ambiziosissima architettura giudiziaria che è il primo maxi processo, la prima sfida dello Stato, anche dal punto di vista simbolico, grazie alla quale mette paura alla mafia e coraggio ai siciliani non mafiosi. Ci sono stati film e documentari che l’hanno raccontato. Succede di tutto: i mafiosi cercano di boicottare il processo, le sceneggiate di chi si finge malato, chi si presenta in aula con la bocca cucita con ago e filo, chi in barella. Quando entra Buscetta i mafiosi dalle gabbie urlano contro di lui. Gli avvocati si sollevano, alcuni non riuscivano a mantenere il distacco richiesto, alcuni erano organici alla mafia.
Fu difficile trovare giudici popolari e magistrati togati. Del processo fecero parte magistrati che passarono poi alla storia, come Pietro Grasso. Io da giovane magistrato incrociai il processo: vinsi il concorso ed ebbi la fortuna di essere affidato per il periodo di tirocinio professionale a Pietro Grasso. Per più di un mese fui nell’aula bunker a scrivere la sentenza. Grasso era rimasto solo a scriverla e addirittura rischiò di non riuscire a depositare la motivazione alla sentenza. Erano 5 i magistrati che avevano scritto l’ordinanza della sentenza di rinvio a giudizio: Falcone, Borsellino, Caponnetto, Di Lello e Conte, mentre Grasso era solo e dovette chiamare in aiuto i giovani magistrati. Ci trovammo, dunque, ad aiutarlo. Un battesimo di fuoco.
Dopodiché continuò la lotta della mafia per non far arrivare in fondo questo processo: venne ucciso il presidente Saetta, presidente designato del processo d’Appello. Era un’intimidazione per gli altri magistrati. Passati in Cassazione venne ucciso il dottor Scopelliti a Reggio Calabria, sostituto Procuratore Generale della Cassazione, designato per fare il Pubblico Ministero. Nel frattempo – come ci diranno le indagini successive alla morte di Falcone e Borsellino – i mafiosi cercarono di influire sul processo: la loro speranza era che andasse alla sezione il cui presidente era Carnevale.
Falcone andò via da Palermo per contrasti con il Procuratore Capo del tempo e accettò di andare al Ministero della Giustizia, dove gli fu permesso legittimamente di influire sulla Corte di Cassazione. Introdusse il sistema della rotazione dei presidenti e impedì al presidente Carnevale, che prima presiedeva tutti i processi di mafia che culminavano con assoluzione – di presiedere.
Questa fu la chiave di volta: già nel ‘91 Falcone aveva il sentore che potesse succedere qualcosa. Aveva rotto il giocattolo della mafia, e lo sapeva. Era entrato in crisi anche il rapporto della mafia con Andreotti, il quale ne prese le distanze tanto che quando Falcone arrivò al Ministero, Andreotti era Presidente del Consiglio.
Nel gennaio del 1992 la Cassazione confermò il maxiprocesso: la goccia che fece traboccare il vaso. La mafia capì che non godeva più delle coperture politiche di cui aveva goduto fino a quel momento e che non poteva aggiustare i processi. Si scatenò contro i politici: il primo ad essere ucciso fu l’onorevole Salvo Lima – non certo nemico della mafia, ma suo alleato – ambasciatore siciliano di Andreotti, il quale non aveva più alcuna utilità.
Nel frattempo entrai in Magistratura, avendo fatto quel tirocinio con Grasso e Falcone, il quale mi aveva in qualche modo instradato, tanto che poco prima che finissi il tirocinio, un po’ sorprendendomi ma ovviamente lusingandomi molto, mi disse : “Ma a te andrebbe tra qualche anno di svolgere indagini di mafia come le sto svolgendo io?”. Pensai che in qualche modo fosse una sorta di investitura.
Finito il tirocinio dovevo scegliere le funzioni. Tra tante opportunità che c’erano, anche di restare a Palermo facendo giudice del lavoro o civile, scelsi di andare a Marsala perché c’era Paolo Borsellino Procuratore Capo e così nacque quell’amicizia e iniziai quasi subito ad occuparmi di indagini di mafia.
All’indomani dell’omicidio di Salvo Lima venni trasferito con procedura di urgenza a Palermo: è un momento forte e si ritiene necessario rafforzare l’organico a Palermo. Borsellino mi fece introdurre alla procura distrettuale antimafia. All’epoca ero il più giovane sostituto alla Procura distrettuale di Palermo – 32 anni.
Inizio questa mia esperienza che durerà 20 anni, sino al 2012. Durò poco la collaborazione con Borsellino e Falcone. A due mesi dall’omicidio Lima arriviamo al 23 maggio, giorno in cui venne ucciso Falcone, e poi il 19 luglio del 1992 venne ucciso Paolo Borsellino.
V. Rossi: Alle 17.57 del 23 Maggio 1992, Cosa Nostra fa saltare in aria un tratto della A29, all’altezza dello svincolo di Capaci. E così in una nuvola di fuoco muore Giovanni Falcone. Ci aiuta, attraverso le sue parole, a tornare per un attimo nella Palermo di quel giorno?
I: Furono mesi difficili quelli dopo l’omicidio Lima. Falcone e Borsellino erano sempre in contatto. Assistetti a una telefonata tra i due nella quale Falcone disse: “Se viene ucciso Salvo Lima per quello che rappresenta vuol dire che sta succedendo qualcosa di estremamente grosso e dobbiamo aspettarci di tutto.”
Nonostante ci fosse un po’ di tensione, non vi era la consapevolezza che potesse esserci una tale strage. Falcone era l’uomo più scortato d’Italia: quell’attentato fu inimmaginabile. Erano state usate autobombe, ma mai si pensava che si potesse arrivare a mettere il tritolo sotto il manto autostradale e far saltare in aria un’intera autostrada .
Una settimana prima della strage fu il compleanno di Falcone, il 18 maggio. Venne in procura per salutarci e andammo a pranzo fuori, con un gruppo ristretto; c’era naturalmente anche Paolo Borsellino. Fu un momento piacevole e conviviale anche se c’era sempre quella nota di amarezza e di sensazione della morte incombente che legava questi due uomini che tra l’altro si conoscevano sin da bambini, sin da quando indossavano i calzoncini corti per giocare in strada a pallone, nel quartiere in cui abitavano.
Con un po’ di humor nero – potremmo dire – Borsellino disse a Falcone: “Sei sempre un passo avanti a me, sei arrivato a festeggiare i tuoi 53 anni io non so se ci riuscirò” (Falcone era leggermente più grande di Borsellino). Lo disse scherzando perché aveva questo pensiero fisso: a 52 anni era morto suo padre e anche suo nonno. Ed effettivamente così avvenne.
Una settimana dopo Falcone morì. L’ombra sullo sfondo della sua festa di compleanno di realizzò.
Il 23 maggio ero a Roma anche io – come Falcone – per lavoro. Anche io sono rientrato lo stesso pomeriggio percorrendo la stessa strada. Sono passato con la mia macchina blindata sopra il tritolo (ero già scortato) ma sono arrivato circa un’ora e mezza prima di Falcone.
Quando è successo il fatto ero ancora per strada, stavo andando verso il centro di Palermo, e sentimmo via radio la notizia che c’era stato un attentato in autostrada. Io non sapevo che Falcone dovesse tornare, lo sapevano in pochi – i mafiosi lo sapevano – per cui il poliziotto di scorta mi avvertì dopo aver comunicato con altri poliziotti e mi disse che si trattava di Falcone. Inizialmente cercai di andare verso l’autostrada, sul luogo della strage, poi mentre stavamo correndo verso l’autostrada seppimo che stavano portando Falcone ferito e la moglie con un elicottero in ospedale. Andammo direttamente al pronto soccorso, non aveva senso recarsi nel luogo della strage. Nel mentre cercavo di parlare con Borsellino ma non rispondeva al telefono. Arrivai circa una mezz’oretta dopo in pronto soccorso. Falcone era già morto.
Borsellino era un altro uomo, irriconoscibile. Paolo era un uomo solare, molto allegro, felice, il fatto che fosse morto in questo modo – nelle sue braccia – il suo più grande amico e collega, fu una cosa che lo svuotò completamente dentro. Lo trovai con le spalle – me lo ricordo come se fosse ora – appoggiate contro la parete della camera mortuaria, stava fumando una sigaretta, con il capo chino e l’espressione buia, completamente svuotato. Anche io poi entrai dentro e vidi Falcone con un’espressione apparentemente serena, morto oramai.
Il paradosso fu che in quella confusione che si era determinata, Paolo, che non era uno molto attento alla sicurezza, aveva deciso di andare dal barbiere (era un sabato) con l’auto di sua figlia, per non disturbare la scorta. Quando dal barbiere gli diedero la notizia dell’attentato per non perdere tempo disse al collega che lo aveva avvertito di passarlo a prendere con la macchina. Il paradosso – la cosa grottesca nella tragedia – era che Borsellino, che era l’uomo più a rischio, era senza scorta e nessuno aveva pensato di accompagnarlo a casa. Lo accompagnai io con un solo poliziotto di scorta, con la blindata, a casa.
R: Da allora passano 57 giorni perché la mafia colpisca ancora. Questa volta muore Paolo Borsellino. In un bel ritratto, che proprio lei fa del giudice Borsellino, lo definisce un maestro, amico, un fratello maggiore.
I: Poi iniziarono quei 57 giorni terribili in cui conobbi un altro uomo – il Borsellino che avevo imparato a conoscere sin da Marsala era un gran lavoratore – ma anche un grande educatore direi, un insegnante per noi che raccontava la sua esperienza passata, il maxiprocesso, con capacità affabulatoria notevole, un grande conversatore. Era diventato chiuso, introverso, di poche parole, un uomo rabbuiato nell’anima direi, e soprattutto concentrato nel lavoro perchè sentiva di avere poco tempo e di aver perso il suo scudo – Giovanni Falcone era lo scudo che lo proteggeva, si sentiva più debole e inerme dopo la sua morte – sentendo questo senso incombente della morte.
Il suo principale obiettivo era scoprire la verità sulla morte di Falcone e correva sempre di più per dedicarsi anima e corpo per qualsiasi indagine – sino a quel terribile 19 luglio.
S: La famiglia di Borsellino rifiuta i funerali di Stato, per gli agenti della scorta, invece, ci sono i funerali di Stato. Palermo sostanzialmente si ribella e lincia lo Stato italiano – che cosa significa quel momento e cosa prova lei nel vedere una città che finalmente forse riesce a girare le spalle alle mafia?
I: I funerali sono stati uno dei momenti più tremendi per certi versi e più forti. Si scatenò finalmente la rabbia, l’indignazione: il popolo che si rivolta, i governati che si rivoltano contro i governanti. Finalmente arrivò il riconoscimento da parte dei cittadini per quegli uomini, che in fondo non sempre erano amati da vivi: forse era senso di colpa per non essere riusciti a proteggerli. Fatto sta che la popolazione prese l’assunzione d’impegno e di coraggio per dire no alla mafia e a quello Stato.
Uno Stato che non aveva protetto adeguatamente soprattutto Borsellino – perché con Falcone non era immaginabile un attentato del genere. Dopo l’attentato di Capaci, Borsellino andava protetto meglio. Anzi, si stanno scoprendo cose in questi ultimi anni, perfino in queste ultime settimane, che lasciano molto interdetti: a quanto pare era disponibile un macchinario in grado di neutralizzare gli impulsi dei telecomandi, e quindi probabilmente se fossero stati utilizzati avrebbero potuto salvare entrambe le vite. Lo Stato non li mise mai a disposizione di Falcone e Borsellino – bisognerebbe interrogarsi del perchè di queste strane e improvvise distrazioni.
Perchè la zona rimozione non venne mai messa sotto casa della madre? Bastava leggere le relazioni di servizio che la scorta di Borsellino lasciava, come fa ogni scorta, rientrando in ufficio e comunicando l’itinerario per rendersi conto che era una delle zone più frequentate da Borsellino. Come minimo bisognava mettere una zona rimozione anti bomba – è veramente una cosa assurda che nessuno ci abbia pensato.
S: Lei come magistrato porta avanti uno dei processi più importanti, a mio avviso, che fa luce sulla storia di quegli anni – come ragazzi forse non conosciamo bene che cosa è stata la Trattativa Stato-Mafia. Ci dà, in qualche battuta, la dimensione di quell’avvenimento?
I: Raccontare in breve la trattativa non è facile. Oggi abbiamo acquisito una certezza consacrata anche in sentenza di primo grado – quindi non definitiva – che riguarda la responsabilità degli imputati. Ci sono, però, tante sentenze definitive che ormai danno per accertato che ci fu una trattativa tra Stato e mafia. Nello stesso momento in cui Falcone lanciava l’allarme, in cui Falcone veniva ucciso e si creava la pressione su Paolo Borsellino, in quelle stesse settimane lo Stato dietro le quinte, trattava una tregua con la mafia.
Il confronto tra Stato e mafia non è mai stato solo di guerra, essi si sono alternati a momenti di pace, e i momenti di pace sono sempre stati raggiunti tramite una trattativa. Ce ne sono state tante di trattative e sono stati più dei momenti di guerra aperta, altrimenti la mafia sarebbe stata sconfitta.
Ci sono stati uomini dello stato che parlavano con dei mafiosi. L’ex sindaco di Palermo – Vito Ciancimino, uomo dei corleonesi – faceva da ambasciatore in quella trattativa. Abbiamo scoperto che c’era un elenco infinito di politici che dovevano essere colpiti, di cui Lima è stato solo il primo. Lo Stato, pertanto, si mobilitò per cercare un accordo: la trattativa era per salvare i politici e di fatto a sacrificarsi furono altri. Non dico – non abbiamo nessuna prova per dirlo – che sia stato offerto il sacrificio di altri, a cominciare da Borsellino, ma di certo il risultato fu questo. La mafia capì che c’era qualcuno nello Stato disponibile ad una tregua: ci furono infatti degli allentamenti nella legislazione repressiva, alcuni mafiosi condannati con il 41 bis vennero scarcerati e quindi si creò una situazione di tregua e piano piano la mafia offre la tregua armata.
In mezzo ci sono gli ignari uomini dello Stato. Non sappiamo se Borsellino fosse stato informato della trattativa, anche se ne abbiamo il sospetto. In ogni caso egli diventava un pericolo e un ostacolo, e probabilmente uno dei motivi dell’accelerazione dell’attentato fu questo.
La trattativa poi continuò nel ‘93, perché non si chiuse l’accordo e la mafia andò avanti, alzando il prezzo. Le sue armi furono altre bombe, altre stragi. Non colpì più i politici ma gli inermi cittadini, colpì i musei ( la strage degli uffizi ), la chiesa di Roma e di Milano. Intanto dietro le quinte continuava quel dialogo. C’è chi le chiama addirittura “le bombe del dialogo” – bombe che servirono per favorire paradossalmente la tregua.
La Trattativa ebbe un suo epilogo nel ‘94, soprattutto grazie a Marcello dell’Utri (condannato in primo grado), che concluse una trattativa di tipo politico e fece sì che nascesse un partito politico, Forza Italia, e che attraverso quel partito politico passassero in legge le richieste di Cosa Nostra.
Certo è che da quel momento la mafia smise di uccidere politici, magistrati e cittadini inermi.
S: Secondo lei, noi giovani come dovremmo rapportarci al fenomeno della mafia e che ruolo l’istruzione può giocare per mantenere una coscienza attiva contro della mafia?
I: I giovani hanno un ruolo fondamentale, sono la classe dirigente di domani. La classe dirigente della mia generazione ha fallito quei progetti di riforma e i giovani di oggi hanno la fortuna di una maggiore consapevolezza, che la mia generazione non aveva. Noi dovevamo fare un’opera di educazione per capire che la mafia fosse qualcosa di negativo. La generazione dei miei genitori addirittura pensava che la mafia, tutto sommato, non fosse così negativa.
La mia generazione ha cominciato a capire che c’era qualcosa che non andava, ma quella dei giovani di oggi sa (o almeno dovrebbe saperlo, questo è colpa della scuola che non fa abbastanza su questo terreno) chi erano Falcone e Borsellino. Si ha, però, un po’ un’immagine religiosa direi, non si ha reale consapevolezza del contenuto della loro eredità, necessaria per evitare che si ripetano gli stessi errori. Questo rischio purtroppo c’è: sicuramente c’è stato un allentamento di tensione e una sottovalutazione. La scuola, quindi, ha certamente una grande responsabilità in termini di formazione di una cultura della legalità antimafia, che mi pare venga coltivata un po’ meno di quanto venisse fatto 20 anni fa, nel periodo delle stragi. C’era un grande impegno e attenzione, oggi meno, anche se sicuramente meglio dei tempi della mia scuola. Ma non basta dire che oggi sia meglio di 50 anni fa.
Prima avevamo la mafia territoriale, oggi abbiamo la mafia finanziaria, la mafia del riciclaggio, la mafia dei colletti bianchi, la mafia globalizzata. Tutto questo deve essere affrontato come ci ha insegnato Falcone, dobbiamo essere “all’altezza”. Prima di Falcone la mafia non era considerata nemmeno come organizzazione, come cultura, come forma mentis: oggi la mafia va affrontata come fenomeno globale, come contaminazione dell’economia (dove spesso è difficile distinguere economia lecita da economia illecita).